La notizia della morte della giornalista perugina Laura Santi, 50 anni, affetta da una forma avanzata e progressiva di sclerosi multipla, scuote le coscienze e invita a una riflessione profonda e non ideologica sul senso della vita, della malattia e della solidarietà.

Laura si è tolta la vita con l’aiuto di un farmaco letale, auto-somministrato nella sua casa di Perugia, assistita dal marito Stefano, dopo una lunga convivenza con la malattia e una battaglia pubblica sul tema del cosiddetto “fine vita”. L’associazione Luca Coscioni – di cui era attivista – ha dato notizia dell’accaduto, ribadendo che “le sofferenze erano diventate per lei intollerabili”, secondo le parole del marito.

Quella di Laura non è una semplice notizia di cronaca. È una tragedia umana che tocca il cuore e interroga la ragione. È il segno doloroso di una solitudine che non dovrebbe esistere, soprattutto in uno Stato che si proclama civile e solidale. È la testimonianza di un dolore diventato muto, che ha smesso di trovare ascolto, conforto, speranza.

Nessuno può giudicare Laura né il suo dolore. Ma proprio per questo, è doveroso interrogarsi se la risposta giusta alla sofferenza sia davvero l’interruzione della vita, o piuttosto un impegno più forte e concreto nel prendersi cura, nell’accompagnare, nel lenire, nel sostenere.

Ogni volta che una persona sceglie la morte per porre fine al dolore, è una sconfitta collettiva. È il segnale che la società ha smesso di offrire alternative vere. È un allarme che dovrebbe smuovere le istituzioni, la medicina, la cultura, e anche la politica, chiamate a difendere la vita fragile, non a giustificarne l’eliminazione.

C’è una tristezza che non si può ignorare nel vedere come il gesto di morire diventi, per alcuni, l’ultimo atto di libertà. Ma quale libertà è quella che nasce dalla disperazione? Quale dignità è quella che si afferma spegnendo la luce, anziché custodirla fino alla fine?

La storia di Laura Santi merita compassione, non strumentalizzazione. E merita un impegno rinnovato perché nessuno, in futuro, debba sentirsi abbandonato a un dolore così grande da sembrare insopportabile.

Non basta “legalizzare” il gesto per renderlo giusto. Occorre umanizzare la cura, sostenere la persona, valorizzare la vita anche nella sofferenza. È questa la sfida di una civiltà davvero umana.

“Ogni uomo merita uno sguardo che dica: ‘la tua vita vale, sempre’.”
Perché quando si spegne anche questo sguardo, si rischia di perdere tutto.

23950cookie-checkUna sconfitta per tutti: la tragica scelta di Laura Santi e il dolore che interroga la coscienza

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