Il quotidiano del Consiglio Nazionale Forense, “Il Dubbio della sera”, ha pubblicato un editoriale in cui si afferma che «la voce degli avvocati è chiara» in favore di una legge sul fine vita. Nulla di più fuorviante. Non tutti gli avvocati condividono questa visione e sarebbe opportuno che un organo istituzionale evitasse di prestarsi a un’operazione ideologica tanto delicata quanto divisiva.
È inquietante che si presenti come compatto l’orientamento di una categoria professionale complessa e pluralista, come quella forense, su un tema che tocca la radice della vita e della morte. Ridurre il dibattito a una supposta unanimità significa non solo tradire la realtà, ma anche forzare un consenso che in molti – me compreso – non riconoscono affatto.
La spinta verso una legislazione che, in nome della libertà, finisce per istituzionalizzare la morte procurata, rappresenta una deriva morale che merita ben altra riflessione. È deplorevole che proprio il quotidiano del CNF, invece di garantire spazio a voci diverse, si faccia portavoce di un pressing unilaterale a favore di una legge che dispenserebbe morte, presentandola come progresso e civiltà.
Non c’è nulla di “civile” nel proporre di affidare allo Stato il potere di eliminare le vite fragili. Chi, come me, crede nel valore inviolabile della vita umana dal concepimento alla morte naturale, ha il diritto – e il dovere – di opporsi a ogni tentativo di normalizzare l’eutanasia sotto il manto ingannevole dell’autodeterminazione.
In un tempo segnato da una crescente secolarizzazione e da un disorientamento etico, è doveroso che la categoria forense non si pieghi al pensiero dominante, ma custodisca la libertà autentica: quella che difende la vita anche quando è fragile, sofferente, non performante. Quella che non si arrende al nichilismo di una cultura che, pur di evitare il dolore, cancella il valore della persona.