In un’epoca in cui l’aborto viene spesso presentato come un diritto acquisito e intoccabile, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha avuto il coraggio – ancora una volta – di prendere una posizione chiara e controcorrente: gli Stati dell’Unione possono legittimamente sospendere i finanziamenti pubblici a Planned Parenthood, la principale organizzazione americana che, accanto ad altri servizi, promuove e pratica l’interruzione di gravidanza.
Con una maggioranza di sei giudici conservatori contro tre liberal, la Corte ha stabilito, nel caso Medina v. Planned Parenthood South Atlantic, che i beneficiari di Medicaid non possono contestare in tribunale la decisione di uno Stato di escludere un fornitore dalla rete di quelli finanziabili con fondi pubblici. La questione non verteva direttamente sulla legittimità dell’aborto, ma sul diritto o meno del cittadino di esigere che un determinato soggetto – in questo caso Planned Parenthood – rientrasse nei soggetti convenzionati.
Una decisione giuridica che ha forti implicazioni morali
La sentenza, pur fondata su un piano strettamente giuridico, apre la strada a una riflessione ben più ampia: è giusto che i contribuenti siano costretti a finanziare organizzazioni che praticano o promuovono l’aborto? La Corte ha risposto: la scelta spetta agli Stati, non ai singoli utenti del programma sanitario federale. È dunque perfettamente legittimo che uno Stato scelga di escludere chi, pur offrendo altri servizi, è coinvolto nell’eliminazione di vite umane nascenti.
Il governatore della South Carolina, Henry McMaster, ha dichiarato: “I contribuenti non dovrebbero essere costretti a sovvenzionare chi offre servizi per l’aborto che sono in diretta opposizione alle loro convinzioni”. Un’affermazione che pone al centro il rispetto della coscienza pubblica e dei principi etici fondamentali su cui dovrebbe fondarsi ogni società democratica.
Quando il diritto diventa distorsione: il nodo dell’aborto
Planned Parenthood, pur svolgendo altri servizi sanitari, resta il principale operatore abortivo degli Stati Uniti. Nessuno nega l’importanza degli screening o delle diagnosi precoci, ma non si può ignorare che dietro la facciata della prevenzione si nasconda la realtà tragica dell’aborto, che consiste nella soppressione intenzionale di una vita umana distinta dalla madre. Ed è proprio per questo che chi sceglie di sopprimere un figlio non può ricevere alcun tipo di sostegno economico da parte dello Stato: sarebbe un’assurda legittimazione pubblica di ciò che, sul piano morale e antropologico, rappresenta un crimine.
Un esempio anche per l’Europa
Questa sentenza dovrebbe essere d’esempio anche per l’Europa, Italia compresa. Anche da noi, dove la legge 194 ha legalizzato l’aborto con motivazioni dichiaratamente emergenziali, è giunto il momento di riscoprire la verità: l’aborto non è un diritto, ma la negazione di un diritto fondamentale: quello alla vita. Un figlio non è un peso da eliminare, ma un essere umano da accogliere e difendere. E nessuna società può definirsi giusta finché continuerà a finanziare – direttamente o indirettamente – pratiche che colpiscono i più fragili e indifesi.
Un’occasione per risvegliare le coscienze
La Corte Suprema americana non ha espresso un giudizio morale sull’aborto. Ma ha chiarito un punto essenziale: uno Stato ha il pieno diritto di scegliere a chi destinare le proprie risorse pubbliche, e può legittimamente decidere di non sostenere chi pratica l’aborto. Una decisione che, pur nella sua tecnicità, invita a una riflessione più profonda e urgente: la tutela della vita non è una battaglia di parte, ma la prima responsabilità di ogni istituzione che voglia dirsi davvero civile.