La notizia che arriva da Reggio Calabria è di quelle che gelano il sangue: una giovane donna, accusata di aver soffocato i suoi due bambini appena nati e di averne occultato i corpi, è agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. Le indagini, iniziate dopo il ritrovamento dei piccoli da parte dei nonni, hanno svelato una vicenda di desolazione e orrore che colpisce nel profondo la coscienza collettiva.

La reazione pubblica è stata unanime: sdegno, compassione, orrore. Tutti — e giustamente — si sono indignati per un atto che appare inumano. Ma la domanda che dovremmo porci è un’altra, e molto più scomoda: perché la stessa indignazione non si manifesta con la stessa intensità di fronte a chi sopprime una vita umana nel grembo materno?

È forse solo perché quel bambino non è ancora visibile, non respira all’aria aperta, non ha un volto riconoscibile? È davvero il fatto di trovarsi “dentro” o “fuori” dal corpo della madre a decidere se un essere umano debba essere tutelato o possa essere eliminato?

Quando la legge anestetizza la coscienza

La differenza, oggi, sembra tutta qui: l’aborto è legale, quindi la coscienza sociale lo assorbe, lo digerisce, lo relativizza. Ma la legalità non coincide con la moralità. Una società che accetta l’aborto come diritto e l’eutanasia come “scelta di libertà” smette lentamente di percepire la vita come un valore indisponibile, e comincia a valutarla in base alla convenienza, alla volontà, alla funzionalità.

La recente direzione intrapresa da alcune organizzazioni — come l’Associazione Luca Coscioni nel suo ultimo congresso — conferma questa deriva. Nel documento finale, approvato a larghissima maggioranza, si propone di intensificare le iniziative per la legalizzazione dell’eutanasia, per l’accesso alla procreazione medicalmente assistita anche per single e coppie omosessuali, e di rilanciare la campagna per l’“aborto senza ricovero”, con l’autosomministrazione domiciliare del misoprostolo e la deospedalizzazione della procedura farmacologica.

È la cultura della morte che avanza, silenziosa ma metodica: una mentalità che trasforma la vita in oggetto di decisione, che relativizza il nascere e il morire, che svuota la maternità della sua sacralità e la riduce a evento biologico da gestire o interrompere a piacimento.

Dal grembo al neonato: il passo è breve

Non si tratta di allarmismi. Nella letteratura bioetica internazionale, esistono già teorie che giungono a sostenere che non esisterebbe alcuna differenza morale sostanziale tra l’uccidere un feto nel grembo e un neonato appena nato.

Due bioeticisti, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, pubblicarono nel 2012 sulla rivista Journal of Medical Ethicsun saggio intitolato After-birth abortion: why should the baby live?, nel quale argomentavano che, in certe circostanze, l’infanticidio sarebbe moralmente accettabile, poiché il neonato — come l’embrione — non possiede ancora piena autocoscienza né desiderio di continuare a vivere.

Una tesi aberrante, condannata dalla quasi totalità del mondo accademico, ma che dimostra quanto sia labile il confine quando si perde il principio che ogni vita umana, in qualunque stadio, ha un valore intrinseco e inviolabile.

Quando la vita diventa negoziabile

La giovane di Reggio Calabria — una ragazza fragile, sola, probabilmente disperata — rappresenta il tragico epilogo di una società che non insegna più a riconoscere il valore della vita, né ad affrontare la maternità come un dono, anche quando è difficile.
Non si tratta di assolvere, ma di capire: il male estremo nasce sempre da una radice più profonda. E se quella radice è la perdita del senso della vita, l’indifferenza verso l’innocente e la banalizzazione della morte, allora la responsabilità è anche culturale, collettiva.

Siamo arrivati al punto in cui si considera “diritto” interrompere la vita di un figlio prima della nascita e “atto compassionevole” provocare la morte di un malato. Ma indignarsi solo quando il male si manifesta in forma brutale è troppo facile. La vera prova di civiltà sta nel riconoscere e difendere la vita quando è ancora debole, invisibile, silenziosa.

La coscienza che dorme

Finché si continuerà a educare le nuove generazioni con l’idea che la vita è un bene relativo, subordinato alla libertà individuale, i confini morali diventeranno sempre più labili.
E quando la sensibilità verso la vita diminuisce, gli esiti diventano imprevedibili — e raccapriccianti — come nel caso della giovane donna calabrese.

Perché una società che accetta l’aborto, promuove l’eutanasia e sperimenta la maternità artificiale è una società che, pur indignandosi per i casi estremi, ha già smarrito la percezione del sacro nella vita umana.
E quando la coscienza dorme, il male trova sempre la strada per entrare.

24610cookie-checkQuando l’indignazione è a orologeria: la società che piange i neonati uccisi ma tace sull’aborto

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