femminista turca MANIFESTAZIONE A ROMA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE PROTESTA CORTEO MANIFESTANTE MANIFESTANTI NON UNA DI MENO

Violenza di genere e femminicidio sono usati per imporre una nuova etica. Non c’è un’emergenza sociale come vogliono farci credere.

Il presidente turco Erdogan con un decreto ha ritirato la Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.

Non entrerò nel merito della decisone del presidente turco, tuttavia, tale evento è un’occasione utile per approfondire quali sono i principi che sottendono e ispirano la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza di genere nei confronti delle donne e la violenza domestica, sottoscritta l’11 maggio 2011 a Istanbul, da 24 Stati europei e ratificata dal Parlamento Italiano il 19 giugno 2013.

Quali sono i motivi che hanno indotto il presidente turco a ritirare il suo Paese dalla Convenzione? C’è da registrare, a dire il vero, che dal partito del presidente turco era stata sollevata, da tempo, la richiesta di una revisione dell’accordo, sostenendo che non fosse coerente con i valori conservatori della Turchia poiché “incoraggia” il divorzio e “mina” l’unità familiare, promuoverebbe l’omosessualità attraverso l’uso di termini come orientamento sessuale e identità di genere.

Tali riserve, tuttavia, sono fondate o sono soltanto pretestuose invettive ideologiche? Verifichiamolo approfondendo innazitutto che valenza giuridica ha la Convenzione.

Cos’è la Convenzione di Istanbul?

È da rilevare – come ho già evidenziato nel mio libro “La famiglia in Italia dal divorzio al gender” – che la Convenzione di Istanbul rappresenta il più importante atto internazionale e il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che, tra tanti aspetti condivisibili, fa esplicito riferimento al concetto di genere e alla violenza intrafamiliare, usando l’espressione violenza domestica.

È da osservare, tuttavia, che la definizione di violenza di genere è strutturalmente ancorata alla storia dei movimenti femministi e, dunque, tale locuzione ha un retroterra culturale di riferimento ben preciso.

La Convenzione inserisce nel suo dettato all’articolo 3 lettera c) il termine “genere” che «si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini». 

Da tale definizione emerge che l’essere donna e uomo non è un dato biologico a cui deve corrispondere una congruenza psicologica, ma è un dato convenzionale – ruoli che «una determinata società considera appropriati» –, un costrutto artificioso nato da un consenso diffuso, «attributi socialmente costruiti».

Il concetto di genere

È opportuno porsi una domanda: come mai nella Convenzione che ha per oggetto il contrasto alla violenza sulle donne è stato inserito il concetto di genere? Non è difficile scorgere che la violenza sulle donne è solo un pretesto per inserire in questo importante atto internazionale, vincolante per gli Stati che lo hanno ratificato, e per la prima volta in un trattato internazionale, il concetto di genere, sostenuto e diffuso da forti e potenti lobby culturali e politiche, che non perdono occasione di imporre l’ideologia  gender in modo sempre più subdolo e pervadente.

A conferma di ciò, a tal proposito, non sorprende il dettato dell’articolo 4, comma 3 della Convenzione in cui il termine “genere” non è usato come sinonimo del termine “sesso”, ma in sostituzione di questo e possiede un suo autonomo significato: «L’attuazione delle disposizioni della presente Convenzione da parte delle Parti contraenti […] deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso, sul genere, […] sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere». Per gli estensori della Convenzione, pertanto, il sesso “maschio-femmina” è cosa differente dal “genere”, e queste due locuzioni sono poi diverse dall’“orientamento sessuale” e dall’“identità di genere”.

Ciò che, tuttavia, non lascia dubbi sul fatto che la lotta contro la violenza sulle donne sia stata solo un’occasione propizia per dare agio ai fautori di una nuova antropologia, di sancire ufficialmente in un trattato internazionale le basi strategiche per la diffusione e la trasmissione dell’ideologia gender nei vari Paesi, tra cui l’Italia, è il dettato dell’articolo 14 comma 1. Tale articolo, infatti, recita: «Le Parti intraprendono, se del caso, le azioni necessarie per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati». L’intento, com’è facile notare, è quello di superare i cosiddetti stereotipi di genere, cioè quei ruoli all’interno della famiglia che – come afferma l’ideologia gender – sarebbero stati propiziati da una cultura patriarcale e maschilista, influenzata dalla religione cattolica, che ha inibito e/o rallentato l’emancipazione della donna. Tali stereotipi – secondo i cultori dell’ideologia gender – dovranno essere decostruiti anche per mezzo di corsi scolastici che, con sempre maggiore frequenza e intensità e con la compiacenza del governo italiano, sono dispensati, ormai già da qualche anno, agli studenti – fin dalla loro più tenera età, nelle scuole di ogni ordine e grado – istillando loro le basi della nuova antropologia fondata sull’ideologia gender, da cui devono essere forgiati. In tali corsi sono messe in discussione quelle verità fondamentali che poggiano sul buon senso e sulla realtà con l’intento di decostruire le basi antropologiche legate al senso comune e al dato naturale, per costruirne altre su basi che non fanno più riferimento a questo, ma soltanto al desiderio, all’emozione e all’autodeterminazione. 

La password della Convenzione

Se l’articolo 14 della Convenzione attua la strategia per la penetrazione dell’ideologia gender tra i giovani, l’articolo 6 della Convenzione di Istanbul è invece la password del provvedimento, che consente di decriptare il senso del trattato internazionale. Esso infatti afferma che «Le Parti si impegnano a inserire una prospettiva di genere nell’applicazione e nella valutazione dell’impatto delle disposizioni della presente Convenzione e a promuovere ed attuare politiche efficaci volte a favorire la parità tra le donne e gli uomini e l’emancipazione e l’autodeterminazione delle donne». 

In tale norma è richiesto agli Stati un impegno a inserire una prospettiva di genere e a favorire l’emancipazione e l’autodeterminazione delle donne nelle leggi che dovranno declinare tale Trattato.

C’è da dire che un lettore privo delle categorie interpretative atte a decriptare ciò che si cela dietro alcuni termini – che sono diventati da tempo parole d’ordine in ogni ambito del vivere sociale e che sono, tuttavia, il passe-partout per imporre la nuova agenda etica – riscontrando la nostra critica a quello che per lui è normale, giusto e anche buono, può rimanere disorientato, o più probabilmente può avere un moto di sdegno per le tesi che stiamo evidenziando.

Tali locuzioni (ad es. emancipazione e autodeterminazione delle donne), tuttavia, sono significative perché rappresentano l’agenda programmatica che dovranno attuare le agenzie deputate a instaurare, per mezzo di provvedimenti legislativi, la nuova etica. 

La legge sul femminicidio

Sulla spinta di tale Convenzione l’Italia ha approvato il disegno di legge 14 agosto 2013, n. 93, recante Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province, convertito in legge 15 ottobre 2013, n. 119, ribattezzato dai mass-media e altresì da numerosi esponenti governativi e parlamentari “legge contro il femminicidio”.

La “violenza di genere” – altro termine coniato secondo la neolingua giuridica da imporre in tutti gli ambiti – comprenderebbe ogni forma di violenza nei confronti della donna in quanto tale, sia essa di natura fisica, psicologica, sessuale, economica e qualsiasi altra forma di prevaricazione che incida sulla dignità, integrità e libertà delle donne.

Il termine “femminicidio”, invece, pur non avendo valenza giuridica, in quanto non integra nel nostro ordinamento una specifica fattispecie delittuosa; costituisce, piuttosto, una categoria criminologica che nasce per indicare tutti gli atti di violenza, fino all’omicidio, perpetrati in danno della donna “in ragione proprio del suo sesso”: ricomprende ogni atto violento o minaccia di violenza esercitata nei confronti della donna, in ambito pubblico o privato, che provochi o possa provocare un danno fisico, sessuale o psicologico. 

È noto come da qualche anno, con sempre maggiore forza l’attenzione sociale si sia spostata in modo prepotente sulla cosiddetta “violenza di genere” che ci viene propinata in ogni ambito sociale e che fa apparire il maschio come un essere pericoloso e che in definitiva tende a denigrare e a delegittimare la famiglia per “farla scadere da focolare di affetti e premure a focolaio di violenze e abusi”; ma è giustificato tale bombardamento culturale e mass mediatico che ci parla giornalmente di violenza di genere?

Guarda caso la maggior parte delle vittime sono maschi

È utile, a tal proposito, esaminare la Relazione che il Ministero dell’Interno ha trasmesso al Parlamento sulle attività delle forze di Polizia nel 2021[1]

Esaminando i dati emerge sorprendentemente che la maggior parte delle vittime – per qualsiasi genere di reato – è di sesso maschile: 65% contro 35%. 

L’approfondimento dei dati consente di evidenziare un calo generale dal 2017 al 2019, quando si sono registrati 314 omicidi, a fronte dei 357 del 2018. Il numero delle vittime di sesso femminile diminuisce passando da 141 a 111. Tale flessione è evidente anche in ambito familiare/affettivo (da 159 a 151). In quest’ambito, risultano 94 vittime di sesso femminile, a fronte delle 111 del 2018.

Partendo dal presupposto che anche un solo omicidio è da stigmatizzare e condannare, tuttavia dai dati ufficiali del Ministero dell’Interno, sopra evidenziati, comprendiamo che la situazione non è in peggioramento come una certa retorica ci vuole fare credere.

Il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale

Cui prodest? A chi giova allora la cosiddetta retorica sulla violenza di genere?

È indicativo, a tal proposito, focalizzare l’attenzione sull’articolo 5 del disegno di legge n. 93/2013, la cui rubrica prevede un “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”. Tale articolo dispone che «Il Ministro delegato per le pari opportunità, anche avvalendosi del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, di cui all’articolo 19, comma 3, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, elabora, con il contributo delle amministrazioni interessate, delle associazioni di donne impegnate nella lotta contro la violenza e dei centri antiviolenza, e adotta, previa intesa in sede di Conferenza unificata ai sensi del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, un “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”, di seguito denominato “Piano”, che deve essere predisposto in sinergia con la nuova programmazione dell’Unione europea per il periodo 2014-2020».

Il Piano, dunque, dispone che siano perseguite una serie di operazioni per propiziare un’azione sociale comune che contrasti la violenza di genere. Certamente appare condivisibile il contrasto alla violenza, ma le reali finalità del provvedimento legislativo in esame non sono quelle che appaiono. Tale legge, invero, cela un fine ideologico, che dovrà essere attuato come afferma il n. 2 lettera c) del citato articolo 5, promuovendo«un’adeguata formazione del personale della scuola alla relazione e contro la violenza e la discriminazione di genere e promuovendo, nell’ambito delle indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, delle indicazioni nazionali per i licei e delle linee guida per gli istituti tecnici e professionali, nella programmazione didattica curricolare ed extracurricolare delle scuole di ogni ordine e grado, la sensibilizzazione, l’informazione e la formazione degli studenti al fine di prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere, anche attraverso un’adeguata valorizzazione della tematica nei libri di testo».

Omologazione culturale

Partendo dalla violenza sulle donne e dando attuazione alla Convenzione di Istanbul, tale legge dispone una sorta di piano di omologazione culturale, che partendo dalla scuola, propizi surrettiziamente facendo leva sulla non discriminazione, sulla violenza sulle donne, sul rispetto, sulla lotta al bullismo e sull’educazione sessuale, tutti temi che in linea di principio sono condivisibili la visione fluida proposta dall’ideologia gender, una lotta tra i sessi e l’equipollenza di qualsiasi orientamento affettivo o sessuale.

È eloquente, tuttavia, che una delle attività per dare attuazione al Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, previsto all’art. 5, n. 2 lett. b), sia quello di «sensibilizzare gli operatori dei settori dei media per la realizzazione di una comunicazione e informazione, anche commerciale, rispettosa della rappresentazione di genere e, in particolare, della figura femminile anche attraverso l’adozione di codici di autoregolamentazione da parte degli operatori medesimi».

Da qualche anno, invero, è stata realizzata un’azione costante, da parte dei mezzi di comunicazione, che hanno esercitato una sorta di vera e propria rieducazione pedagogica del popolo italiano. L’azione che è stata effettuata dai mass media – per mezzo di fiction, talk show, etc – è stata quella di presentare l’omosessualità, come un orientamento sessuale da omologare all’eterosessualità. Per giungere a tale fine, l’azione dei mass media si è servita – come detto – della cosiddetta neo-lingua (progenitore A e B in luogo di padre e madre; gestazione per altri in luogo di utero in affitto; ovodonazione in luogo di vendita di ovuli femminili, etc.), per conseguire più facilmente l’esito di un trasbordo ideologico inavvertito della popolazione.

Conclusione

Cosa dire a questo punto? Pur premettendo che non sono né filo turco, né filo islamico, mi chiedo: e se la Turchia ha compreso prima di noi che questa Convenzione è un cavallo di Troia per disintegrare moralmente la Nazione?



[1] Cfr. Ministero dell’Interno, Relazione al Parlamento Anno 2021 sull’attività delle Forze di Polizia,
sullo stato dell’Ordine e della Sicurezza Pubblica e sulla Criminalità Organizzata
, consultabile al link: https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2021-01/relazione_al_parlamento_2019_-abstract-.pdf

10940cookie-checkE se la Turchia ha capito prima di noi che la Convenzione di Istanbul è un cavallo di Troia?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *