Nel volgere di poche ore, La Stampa — uno dei principali quotidiani italiani — ha pubblicato due editoriali esemplificativi di una precisa visione del diritto e dell’umano: da una parte, l’intervento di Alessandra Minello (28 luglio 2025), che celebra la dissoluzione del paradigma biologico della maternità; dall’altra, l’editoriale del direttore Andrea Malaguti (27 luglio 2025), che rivendica il diritto soggettivo al suicidio medicalmente assistito come espressione estrema di libertà. Non si tratta di episodi isolati, ma di manifestazioni coerenti di un orientamento culturale che merita una riflessione critica, tanto più urgente quanto più si camuffa da progresso ineluttabile.
1. L’ideologia della genitorialità intenzionale: una sovversione simbolica
Nel suo commento alla sentenza del Tribunale per i Minorenni di Firenze, Minello esalta il riconoscimento della “madre intenzionale” come una conquista giuridica e culturale. L’elemento centrale della sua argomentazione è la sostituzione della maternità naturale con un concetto volontaristico e relazionale: «fare la madre» diventa una questione di “cura, impegno e progetto condiviso”, mentre la gestazione e la procreazione biologica vengono relativizzate fino all’insignificanza.
Tuttavia, questa narrazione, pur mascherata da lessico accogliente, ha un portato radicale: essa decostruisce la dimensione naturale della maternità e nega il fondamento corporeo e sessuato della generazione. In nome dell’inclusività, si opera un’espropriazione semantica: la madre non è più colei che genera, ma chi viene riconosciuta come tale dal desiderio di un altro adulto o dalla pronuncia di un giudice. In questo modo, la filiazione diventa un prodotto simbolico e giuridico, sottratto alla realtà ontologica della nascita.
Questo processo, che potremmo definire di de-simbolizzazione della generazione, non è neutro. Esso rimuove la differenza sessuale come elemento costitutivo dell’umano e propone un modello di famiglia fondato su combinazioni affettive intercambiabili, dove il figlio diviene oggetto di un diritto, non più soggetto titolare di legami originari da custodire. È un mutamento antropologico profondo, che il diritto sta subendo — più che governando — sotto la spinta di istanze ideologiche e giurisprudenziali.
2. L’autodeterminazione come assoluto: il paradigma eutanasico
L’editoriale del direttore Malaguti si colloca nella medesima logica. Il diritto al suicidio assistito vi è presentato come la “fotografia di una sconfitta”, ma al tempo stesso come uno spazio sacro e inviolabile della libertà individuale. Ogni riserva etica o giuridica, ogni argine normativo, viene derubricato a residuo clericale o a espressione di una “politica che pretende obbedienza”. Anche qui, come nel caso della genitorialità intenzionale, si assiste a una trasfigurazione del diritto in pura legittimazione del desiderio soggettivo.
La visione sottesa è quella di un diritto ridotto a tecnica di riconoscimento identitario: non più ordinamento orientato alla giustizia oggettiva, ma strumento plastico volto ad assecondare la volontà individuale, anche quando essa si esprime nella richiesta di morte. L’eutanasia, in questo quadro, non è più un’eccezione tragica, ma un diritto da garantire e da promuovere, anzi, un atto politico di resistenza all’autorità (che sia lo Stato, la Chiesa, o la medicina).
Scompare ogni riflessione sul dovere di cura, sull’accompagnamento, sulla vulnerabilità, sull’interesse collettivo a proteggere la vita fragile. L’io autodeterminato diventa il nuovo soggetto sovrano, assoluto, incondizionato. Il risultato è una giustizia ridotta a conferma del vissuto individuale, senza mediazioni, senza interrogativi, senza limiti.
3. Dalla norma alla narrazione: La Stampa come attore culturale della nuova antropologia
Ciò che accomuna i due editoriali non è soltanto la materia trattata, ma la funzione attribuita al diritto: non più criterio regolativo di giustizia comune, ma dispositivo narrativo che deve accompagnare e legittimare l’evoluzione delle sensibilità. La Stampa non si limita a registrare questo cambiamento: se ne fa promotrice, affermandosi come organo ideologico della nuova religione civile dei “diritti senza natura”.
Il comune denominatore è l’idea che l’umano sia indefinitamente plasmabile, e che ogni vincolo naturale — la differenza sessuale, la procreazione, la morte — debba cedere il passo alla volontà individuale, purché rivendicata come diritto. Non si tratta di una mera mutazione normativa, ma di un vero e proprio mutamento di paradigma antropologico: dal diritto naturale al diritto performativo; dalla giustizia al riconoscimento; dalla legge come misura all’emozione come criterio.
Conclusione
La coincidenza di questi due editoriali su La Stampa non è fortuita, ma sintomatica. Essa rivela un orientamento profondo, che trasforma il giornalismo da spazio di confronto a veicolo di rieducazione ideologica. In nome dei “nuovi diritti”, si dissolvono le categorie fondamentali dell’antropologia giuridica: la maternità, la filiazione, la cura, la vita.
Di fronte a tale deriva, è necessario recuperare una visione integrale del diritto, radicata nella realtà della natura umana e nella sua dimensione relazionale. Solo così sarà possibile resistere alla colonizzazione culturale di un’ideologia che pretende di riscrivere l’umano partendo dalla sua negazione.